L’«Adalgisa» di Gadda (1946)

«Il Mondo», n. 19, Firenze, 5 gennaio 1946, p. 6; poi – con il titolo Nota sull’Adalgisa – in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit. e in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

l’«adalgisa» DI GADDA

Nella nuova edizione dell’Adalgisa di C.E. Gadda (Le Monnier, Firenze, 1945) scompaiono quei pezzi che nella prima edizione ci sembrarono coabitare un po’ per forza con i veri «disegni milanesi» che corrispondono al sottotitolo del libro non solo per il soggetto milanese, ma anche per un tono veramente di disegno, non di semplice scherzo o di poetica divagazione abbandonata e patetica come la Notte di luna, di affresco movimentato e veramente romanzesco come i brani che si collegavano alla Cognizione del dolore. Nella riduzione ai veri disegni, il libro diventa cosí in certo senso un nuovo libro coerente, unitario, capace (il che è proprio la dote suprema di un libro di prosa saggistica) di dare alla nostra lettura un unico sfondo tonale e il vigoroso piacere di una vicenda stilistica a suo modo unitaria: anche se i brani raccolti vivono di pretesti narrativi diversi. E si noti che qui almeno cinque dei disegni hanno una parentela di personaggi e di società: e il sesto vive di non dissimili suggestioni ambientali.

Chi legge l’Adalgisa libera da brani che ricordavano il primo Gadda (il tenue e quasi patetico artista che alla scuola del racconto-bozzetto degli scapigliati e di Faldella aveva costruito il fragile mondo della Madonna dei filosofi a cui può riavvicinarsi semmai il disegno piú debole e laterale di Claudio disimpara a vivere) e da brani che rimandano al Gadda piú complesso e per noi piú impegnativo e lirico (lo scrittore della Cognizione del dolore) trova cosí un libro di estrema compattezza, in cui la monotonia gaddiana (quanto cocciuta e perciò pesante è spesso la volontà di una bizzarria e di un tecnicismo faticoso e indigesto) diventa, mercé una suggestione ambientale, atmosfera e avvio al ritmo linguistico e mediatamente poetico: che è poi ciò che piú veramente conta in queste pagine, animate e svolte da un impeto meno profondo che nella Cognizione, ma anche piú limpido e chiaramente profilato. Sí che la «fuga» veramente magistrale intessuta sul tema linguistico del «ciapall» nel «tram 24» del Concerto di centoventi professori, è il simbolo palese, volgarizzato nella sua gustosa potenza, del vero valore del disegno gaddiano. E tutto questo libro si avvantaggia vistosamente delle esperienze precedenti, della furia tecnicistica delle Meraviglie d’Italia, della pastosità dei primi saggi e di certi pezzi degli Anni (Firenze, 1943), della scoperta passione del Castello di Udine: se ne avvantaggia soprattutto in quanto tali esperienze vengono adibite ad un uso coerente e dominante in cui esse si sfanno, dando luogo ad un racconto musicale, dal ritmo leggero e rapido, umoristico e fluente. Naturalmente non si creda che il nobile «tritume vetroso di caramello» di cui parla Gadda per il suo stile, la sua faticosa ed esaltata «granulosa precisione elencatoria» siano scomparsi per dar luogo ad una pasta morbida e soffice e ad una lingua senza scabre punte e groppi voluminosi (con le solite inversioni di costrutto, con le pause rapide di un parlato lontano da ogni realismo e puro mezzo stilistico; con immediatezze asintattiche e con nessi ampi e complessi, con improvvisi bagliori di parole-immagini e gorghi maccheronici di neologismi rigorosi ed arditi), perché nulla sarebbe piú alieno dalla sua poetica autorizzata da Orazio (cui egli si richiama per il gusto scolpito ed oggettivo della precisazione lessicale), dalla tradizione lombarda[1], da certo bizzarro e intelligente Ottocento (vedi Imbriani) e dal piú raffinato gusto dell’analogia e del discorso interno. La sua poetica sostanziale non cambia, il suo amore per una prosa numerosa e incalzante, in cui un continuo scatto intimo travolge e si complica con trovate dell’intelligenza, rimane vivo anche là dove, come in alcuni pezzi de Gli anni (indichiamo il saggio Tecnica e poesia per una completa misura delle intenzioni gaddiane), Gadda si indugia in moti idillici, di abbandono.

Ma se uno sciogliersi in prosa piú morbida sarebbe un nonsenso per la poesia di Gadda, certo in questi Disegni milanesi il ritmo è meno convulso e la sua rapidità, la sua nativa furia è piú scherzosa, alleggerita, felice. E mai come in questo libro la musica di un ritmo nutrito di tanto complesso tecnicismo si espande cosí ariosa e resiste nel ricordo (l’ultima istanza di una lettura e la preparazione ad una critica non provvisoria) con una suggestione di «paesaggio» e di vicenda in perfetta simpatia, che ci stacca (come invece non avviene sempre in altri testi di Gadda) dal singolo pezzo e dalla singola pagina e dalla singola trovata lessicale: vincendo cosí l’impressione di sopraffazione quasi cupa e ossessionante di altre pagine troppo stipate e faticose.

Questo senso di brio fresco, di musica che, salendo da trame complesse e da ricerche particolari (si noti l’uso gustoso delle note, comuni in Gadda, ma qui anche piú frequenti e spesso sviluppate addirittura in disegni raccorciati, in miniatura coerente con la musica che domina nel testo: come avviene, ad esempio, in quella nota lunghissima sulla immagine milanese o parigina di Napoleone), ne nutre la sua coerenza fantastica, è piú chiaramente percepibile nei primi disegni: piú esenti dalla intenzione romanzesca che, mossa nel Concerto, si svolge nei due ultimi capitoli, Al parco, L’Adalgisa. In questo senso il disegno ne I ritagli di tempo può essere il punto estremo e pericoloso di una musica troppo esteriormente briosa e di un gusto alla fine calligrafico, pur costituendo con la figura del giovane «ingegnere» milanese la premessa del Concerto di cui si anticipa qui piú superficialmente il motivo della società medioborghese della città lombarda con le sue parentele a tribú con il giuoco dei nomi («dei Pérego, dei Biraghi, dei Maldifassi, dei Corbetta, dei Rusconi, dei Bernasconi, dei Trabattoni, dei Repossi, dei Cornolli, dei Lattuada, dei Gaddus»), con il movimento comico di un mondo onesto e mediocre, civile e conformistico; e poche volte una satira non nutrita di veleno ha colto cosí bene i limiti di una mentalità, sí che questi disegni han veramente anche un valore di documenti di costume, e una società milanese anteguerra cosí ben circoscritta ha in Gadda il suo ritrattista! Un carattere completo hanno i due disegni iniziali (Quando il Girolamo ha smesso, Quattro figli ebbe e ciascuna regina) a cui offre consistenza anche il limitato sfondo di «interno» su «cartone vecchio» e quella tinta di bonarietà famigliare col suo doppio verso di simpatia e di distacco umoristico (quella intonazione che piove su questa Lombardia amata e ironizzata fino all’estremo della antiretorica, «Una bischeraggine generosa e totale, una vena romantica e brodolona... Oh! sangue e gente delle stragi e delle ibridazioni lontane, tra ligure e gallico e longobardo e minchione, con quello spruzzo di bugie curúli in coppa a dargli il sapore e la parvenza d’una civiltà, quasi polvere di cannella sulla panna frullata»!). Essi formano una base omogenea alle sbrigliate fughe della fantasia, alle accelerazioni, agli ingorghi di un ritmo in cui quei dati di colore e di umano giudizio si risolvono completamente, trovano il loro senso vero (non ironia e simpatia, di fronte, ma ritmo caldo e frizzante), la loro possibilità di giuochi che non rimangono virtuosismi, di vicende che non rimangono bozzetti, con la loro fecondità di mosse liete e squillanti: «E issofatto gli combinavano tutt’all’ingiro un girotondo infernale, gridavano e saltabeccavano in cerchio, sparando su delle mattonelle come altrettanti razzi, ricadendo poi con le gambe nude e mutandine rosa alle viste sui sandali acciabattati a sfragellarsi le trombe di Fallopio (dotti ovarici); mentre la gonnellina pareva fungere da paracadute, elata ad umbrello».

È negli ultimi due disegni, dopo la fantasia colorita del Concerto (in cui nel piú acceso ed ardito sviluppo di sequenze si precisa la figura della bella donna, di Elsa, inconsapevolmente superiore al mondo pittoresco delle tribú ambrosiane), che Gadda ci mostra meglio le sue qualità di narratore e il gusto del quadro – diciamo in termini convenzionali – d’ambiente, pretesto alle sue fantasie, alle sue variazioni, si fa piú sottile e si impasta con un piú deciso tema narrativo, perdendo in autonomia vivace e pungente e acquistando in complessità di direzioni tematiche, di toni romanzeschi e sentimentali. Mentre la linea dei primi disegni è semplice e la profondità del paesaggio è limitata, poco scandagliata, negli ultimi brani vi è un indugiare piú sinuoso, un presentarsi di motivi, di sfondi piú numeroso e spaziato. Si pensi, nel disegno Al parco in una sera di maggio, al suggerimento di direzioni spaziali e sentimentali dato dal simultaneo racconto dell’Adalgisa, dal giocare dei bimbi, dal girellare del Bruno: e nell’Adalgisa dal variare romanzesco di luoghi e di occasioni.

E lo stesso acuto senso delle situazioni narrative, l’abilità con cui si snodano, non in una semplice catena cronologica, gli avvenimenti, indicano piú che in altre opere del Gadda una nativa sapienza compositiva, un istinto di racconto che giustifica piú sobriamente l’uso dei suoi originali mezzi espressivi: il cui pericolo ultimo è un piacevole caleidoscopio, anche se serve spesso a rallentare il ritmo e a portare un’aria di abbandono sentimentale, che il mordente piú brioso e risoluto dei primi disegni elimina e che non trovammo nella parte a noi nota della Cognizione del dolore. Segno comunque di una maturazione di interessi artistici che possono provocare anche un iniziale squilibrio nella prosa gaddiana, cosí generosa di una lettura sempre di eccezione (nel senso meno abusato di questa parola), ma che certamente promettono nuove ricerche di tono su di un piano di tenacia artistica che non molti scrittori sanno mantenere con tanta fedeltà.


1 Suggerisce Dossi: «Inventare parole nuove è lecito a tutti per la ragione che è lecito l’inventare nuovi pensieri. Difatti a chi ben guarda, le parole non sono che altrettanti pensieri – come i periodi, come i capitoli, come i libri».